Nel 1963 si era in piena corsa spaziale. Per tre giorni la navicella Vostok-6 lanciata il 16 giugno dai russi era rimasta in orbita attorno alla terra: l’impresa certo esaltante aveva colpito anche l’insospettabile Comandante dei carabinieri di stanza a Corleone, che nello stesso mese di giugno firmava un Riservatissimo rapporto sulla mafia di quel paese così poco tranquillo.
Il comandante Agostino Vignali esordiva scrivendo che, mentre il mondo affrontava la conquista degli spazi, “sarebbe ridicolo, o quanto meno paradossale, parlare ancora di argomenti che sanno di oscurantismo” come la mafia. Poi s’inoltrava in una minuziosa ricostruzione che contraddiceva le premesse e definiva la mafia come controllo sul territorio: una organizzazione criminale con un “programma polivalente in netto antagonismo con ogni ordine costituito”. Il ventaglio dei titoli, delle benemerenze e delle amicizie del dottore Navarra era più eloquente di un trattato sociologico sul classico capomafia: ma il comandante Vignali elenca ogni cosa in maniera meccanica, senza comprendere i meccanismi dell’intreccio con la politica.
Erano difficili gli anni ’60 a Corleone. L’accumularsi dei delitti prodotti dallo scontro tra la mafia vecchia del dottore Michele Navarra e quella emergente del giovane Luciano Liggio aveva provocato sgomento e paura. Ma lo stesso, in tanti avevano parlato. Con opera meritoria di recupero della memoria il giornalista Ernesto Oliva è andato a leggere le carte con le deposizioni: ha preso il volume con la Documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione antimafia pubblicato nel 1980, ha ricostruito le vicende che potevano cambiare la storia degli ultimi 50 anni e ne ha fatto un libro, I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato (Di Girolamo, 224 pagine, 20 euro) che da vicino ci lascia vedere come uno dei capisaldi su cui si regge il potere della mafia, il comportamento omertoso, sia un risultato indotto da due protagonisti che sembrano operare in tandem: la mafia e lo Stato. E bisogna pur dire che non si tratta di novità, sono miopie presenti e operanti già negli anni a ridosso dell’Unità, quando si celebrano i primi processi: a Monreale, e siamo negli anni ’70 dell’800, la lotta era tutta attorno alla distribuzione dell’acqua ma le denunce degli utenti vengono lasciate cadere. E la mafia prospera in questa latitanza dello Stato, in questa incapacità a fronteggiare il malaffare e tutelare i cittadini.
La comunicazione sulla mafia si nutre di luoghi comuni, il lavoro di Ernesto Oliva smonta alcuni stereotipi parecchio diffusi. Ad esempio, come scrive Umberto Santino nell’introduzione, ci mostra come il giudizio sulla “corleonesità”, che produce anche stragi, sia in buona parte indotta dalle dichiarazioni di Buscetta: il boss dipingeva se stesso e i suoi amici quasi come una società di mutuo soccorso, imputando ai corleonesi il tradimento dei presunti antichi valori. Ma raccontava solo l’ultimo scontro generazionale tra vecchia e nuova mafia, dove i “vecchi” che molto hanno da perdere dipingono se stessi come moderati e amanti dell’ordine. Ed è un meccanismo sempre all’opera, che si rinnova a ogni generazione mafiosa.
I “pazzi di Corleone” di Ernesto Oliva si chiamano Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva: nomi sconosciuti alle cronache. Fra il 1957 e il 1969 forniscono a poliziotti, carabinieri e magistrati indicazioni preziose sulla faida che insanguina il paese, e sono solo una parte dei tanti corleonesi che hanno scelto di denunciare. I loro casi, per molti versi esemplari, ci mostrano come l’ascesa di Liggio ai vertici dell’organizzazione mafiosa poteva essere fermata. Chi decideva di denunciare si affidava alla giustizia dello Stato, in una Corleone dove anche con l’avvicinarsi a un carabiniere si metteva a rischio la propria vita e quella dei familiari.
Purtroppo non venne compresa l’importanza del loro gesto di rottura. E l’incapacità dello Stato a tutelare chi denunciava diede presto i suoi frutti: i testimoni vennero chiamati a confermare in aula le loro deposizioni, anche uno sciocco avrebbe capito che nel frattempo chissà quante minacce avevano subìto, chissà quanta paura. Ritrattarono, si finsero folli. Seguì una lunga stagione di processi scandita da beffarde assoluzioni per insufficienza di prove. In pochi avevano capito l’importanza di quel denunciare quasi corale. L’aveva capito il giudice istruttore Cesare Terranova, che su quelle denunce ottenute da polizia e carabinieri scrive un dettagliato rapporto investigativo e riesce a istruire il processo celebrato a Bari nel 1969: una sorta di maxiprocesso contro 64 esponenti del clan Liggio, con Terranova che compone un quadro d’accusa utilizzando anche le dichiarazioni di numerosi testimoni.
Un processo epocale. Che però si chiude con condanne irrisorie e subito emergono le minacce subite dai giudici popolari, che – pare incredibile – hanno ricevuto lettere minatorie mentre erano riuniti in camera di consiglio. Il “teste-bomba”, Luciano Raia, messo a sedere a pochi metri da Liggio, aveva fatto del suo meglio per convincere tutti quanti del suo disordine mentale. Meglio pazzo che ammazzato. Lui e tutta la sua famiglia a cominciare dalla moglie Biagia Lanza, che per prima aveva parlato ed era finita sui giornali come la donna che aveva osato sfidare il potere di Luciano Liggio, guadagnandosi il soprannome di Peppina la coraggiosa. Perché anche questo accadeva nella sconosciuta Corleone degli anni ’60 del ‘900, che le prime a parlare e denunciare fossero le donne.
Autore: Amelia Crisantino
Fonte: la Repubblica, 20/02/2020
Immagine di copertina: Cesare Terranova