Mediterraneo da culla del pensiero a tomba delle libertà

Più il pensiero si fa rozzo, frantumato dalla velocità, schiacciato dal presente eterno, centrifugato dal suo esprimersi nel web social, ridotto a slogan, non supportato da una cultura minima, più i filosofi sembrano industriarsi per mostrarci l’ambivalenza delle cose, il bisogno di sfumature, l’intersoggettività come destino umano.

Nell’espressione filosofica contemporanea l’identità viene mostrata come costruzione e non come base di partenza, il plurale si fa sempre più d’obbligo: le saggezze, le filosofie, le religioni, le verità. Se esistesse un misuratore di distanza tra i filosofi e il dibattito delle masse, oggi ritoccherebbe tutti i propri primati. E questa distanza, tranne per qualche “cavalcatore di tigri” più o meno professionista, prescinde ormai dagli stessi contenuti del pensiero del filosofo.

La filosofia in sé, per quella necessaria concentrazione, dovizia di argomenti, previsione delle obiezioni, si fa avversaria del dibattito attuale per il solo fatto d’esistere, per il solo fatto di non poter evitare quella “esitazione” di cui parla Blumenberg come costituente del pensiero, quella procrastinazione della soddisfazione immediata che per Ortega faceva corpo addirittura con la cultura stessa dell’uomo.

Ovviamente rimangono centrali e necessari quei pensatori che, oltre a testimoniare la complessità della comprensione del reale con il loro stesso filosofare come tutti i pensatori di tutti i tempi, la propongono apertis verbis:  coloro che ne fanno la chiave euristica per la nostra epoca confusa che, proprio perché tale, abbisogna di una maggiore esplicitezza.

Tra questi pensatori un posto di rilievo tra i viventi ha il longevo Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, di cui meritoriamente Augusto Cavadi ripesca, per la collana “Sponde. Pensare Mediterraneo” della casa editrice Il pozzo di Giacobbe, un saggio su rivista del 1998 inedito per l’Italia. Il libretto, arricchito da due brevi ma meditate postfazioni di Cavadi stesso e di Alberto Cacopardo, appare adesso con il titolo a chiasmo, abbastanza cacofonico ma concettualmente esplicativo e interessante: Pensare il mediterraneo e mediterraneizzare il pensiero.

Il tema identificato dal titolo è dunque al contempo coeso ma polisemico, comprendendo delle aperture a un pensiero meridiano (alla Cassano per intenderci) e una necessità di pensare, articolare il mediterraneo cogliendone tanto la particolarità quanto la esemplarità.

Il repêchage dell’articolo di Morin rivela la convinzione, confermata dal paratesto del volume, che la Storia, ormai vista solo come atlantica o orientale per innovazione tecnologica, sviluppo economico, sperimentazioni postdemocratiche del capitalismo finanziario eccetera, sia in qualche modo obbligata per capirsi e spiegarsi a tornare a quel mediterraneo che, a volte a ragione altre a torto, ne è stato sempre percepito come il centro.

Molti elementi su cui si basa il nostro prossimo futuro trovano qui la propria pietra di paragone: il rapporto tra società secolarizzate e radicalismo religioso, lo scontro tra solidarietà e rifiuto dell’altro, la ricezione del fenomeno migratorio, tutto reso complesso e parossistico dalla millenaria sedimentazione storica del mediterraneo e dalle sue dimensioni ormai, per il mondo globalizzato, ridotte, quasi familiari.

Questa familiarità si esprime in un intreccio storico indipanabile. Morin cerca di farcelo vedere creando quella lontananza di sguardo che è propria del “filosofo della società” e che ci permette di ritornare a vedere quelle cose a cui siamo talmente avvezzi da non scorgerle più, come quello che lui definisce il “paradosso supremo”: “le tre religioni del Mediterraneo hanno uno stesso Dio, ma questo Dio unico e diviso in tre Dei gemelli e nemiciQuesti tre volti del Medesimo si contendono la legittimità celeste e terrestre; ciascuno pretende di avere proclamato la vera Legge; ciascuno esige in maniera monopolista, più che monoteista, la vera adorazione” (p. 11).

Il mediterraneo per Morin sembra essere quasi l’emblema del pensiero complesso di cui si è fatto per anni araldo: “Per concepire il Mediterraneo è necessario concepire contemporaneamente l’unità, la diversità e gli opposti; ci vuole un pensiero che non sia lineare, che colga a un tempo le complementarietà e gli antagonismi. (…) È il mare della comunità e del conflitto, il mare dei politeismi e dei monoteismi, il mare del fanatismo e della tolleranza” (p. 11), e più avanti: “una linea sismica (…) avanzando nel mediterraneo, concentra in esso in misura virulenta lo scontro di tutto ciò che si oppone nel pianeta: Occidente e Oriente, Nord e Sud, islamismo e cristianesimo, (…) laicità e religione, fondamentalismo e modernismo. Ricchezza e povertà” (pp. 13-14).

Ma ciò su cui appunta la propria attenzione Morin è essenzialmente la contraddizione che svela, che apre alla complessità, dove lo scontro tra le diverse religioni e culture si interseca con lo scontro tra la dimensione della tradizione complessivamente vista e la modernità intesa – come è mozione di maggioranza da Marx in poi – come “ondata omogeneizzante e standardizzante dei processi tecnico industriali, soprattutto la destrutturazione delle solidarietà tradizionali così come la dipendenza vieppiù stretta rispetto all’economia monetarizzata” (p. 15).

Dagli anni Ottanta in poi, però, ricostruisce Morin, la modernità avrebbe perso la propria spinta verso il futuro (in questo senso questa ricostruzione troverebbe piena attuazione psicologica ed esistenziale nelle opere di un altro francofono: Miguel Benasayag), restando intatta solo in quelle culture che ancora anelano a raggiungere quello stato e perdendo forza e cogenza per chi quello stato lo ha raggiunto e ne vede le contraddizioni: “Il passato, che era stato mandato in rovina dal futuro, rinasce dalla rovina del futuro” (p. 21) e rinasce come nazionalismi, riprese del conservatorismo religioso cristiano e islamico.

Ma se la presa di distanza da queste reazioni è abbastanza pacifica in Morin, e quindi non particolarmente interessante, più ricca di sfumature è l’analisi della crisi di quelle categorie ancipiti come l’umanesimo di cui mette in evidenza tanto l’aspetto baconiano di dominio sulla natura (sulla cui fine non sembra piangere soverchie lacrime) quanto quello di riconoscimento dell’essere umano come soggetto di diritti e di doveri.

Il mondo contemporaneo per Morin appare dunque come una dimensione caotica, “un turbinio” in cui si intravedono due barbarie: “la prima viene dal fondo delle epoche storiche e apporta la guerra, il massacro, la deportazione, il fanatismo. La seconda, fredda, anonima, viene dalla nostra civiltà tecno-industriale: essa non conosce che il calcolo e ignora gli individui” (p. 26).

Su questo caos sovrintendono una “egemonia provvisoria” della potenza statunitense e una presenza “insufficiente e spesso poco pertinente” del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, a cui Morin contrappone implicitamente, elogiandoli in altre pagine, osservatori e associazioni internazionali come il Club di Roma, il Club di BudapestGreenpeace ecc, visti come tentativi di sviluppare una coscienza planetaria.

Nella postfazione, Alberto Cacopardo, glossa e critica questa descrizione annotando i luoghi in cui Morin sottovaluterebbe la presenza e il peso degli Usa nella degenerazione del panorama mondiale dopo gli anni Novanta e sembrerebbe ignorare la presenza di una opprimente regolazione da parte degli organismi internazionali, né insufficiente né poco pertinente (per quanto perlopiù negativa), aprendo all’ipotesi, rispetto al Nostro, che questo turbinio abbia un ordine implicito.

Si potrebbe segnalare come lo stesso Cacopardo però sottovaluti la lungimiranza dell’aggettivo “provvisorio” assegnato da Morin all’egemonia statunitense in anni di mondo “monopolare” e oggi ben più visibile (basti guardare, anche al netto dell’attivismo russo, dove sono geograficamente collocate le materie prime necessarie alla rivoluzione verde del Green Deal e il livello della presenza economica cinese in Africa).

A questa lettura lucidamente pessimista, e che a distanza di anni potrebbe essere corretta solo in peggio, Morin contrappone alcune situazioni in statu nascenti. Ovviamente la misura del saggio su rivista, collocazione originaria dello scritto, non permette di proporre una trattazione in costruens con una articolazione adeguata all’enormità dei problemi con cui qui ci si misura.

Restano dunque, queste prospettive, più che altro “saggi” quando non suggestioni, spunti su cui meditare o inviti ad approfondire nei testi più sistematici di Morin. Tra queste suggestioni certamente si nota l’attenzione, già citata, a quelle dimensioni sovranazionali di incontro tra i popoli e gli studiosi, l’attenzione per l’esperimento dell’Unione europea (ancora più importante oggi che la doppia barbarie la smembra o la rende inutile) e l’ipotesi che anche il mediterraneo debba darsi forme e istituzioni in questa “unità differente” geografica, culturale, storica e religiosa contro chi (Huntington docet) concepisce solo l’alternativa tra omogeneità o scontro.

L’Europa avrebbe il compito di proporre una razionalità “non soltanto critica, ma anche autocritica” e quanto questo si leghi a un altro tema forte di Morin, quello di una riforma dell’educazione, è evidente a ognuno.

Purtroppo, non serve essere particolarmente informati dello stato di salute dell’istruzione occidentale per capire che questi venti anni che ci separano dallo scritto non ci abbiano avvicinato a una educazione critica, complessa, multidisciplinare, non legata a una causalità puramente meccanica, non basata sul pensiero disgiuntivo; insomma se non a una educazione che sia degna della complessità moriniana almeno che sia – per citare un libro di Martha Nussbaum utile da leggere su questi temi –  “non per profitto”. È probabile che per farlo l’Europa debba cercare (e qui il pensiero di Morin, ma anche il nostro, va alle belle pagine di Franco Cassano) quei nuclei di mediterraneità in essa ancora presenti.

Intanto, senza voler peccare di ingenuità, possiamo annotare che qualcosa più di una suggestione Morin la propone di passaggio nelle prime pagine quando fa notare che il mediterraneo è il mare in cui questi conflitti sono comunque riusciti a diventare, in diversi tempi storici, “dibattito democratico e dibattito filosofico”, indicando una correlazione e un modello di sintesi mai definitiva né definitoria (del resto la locuzione “dibattito filosofico” invece che filosofia non è scelta a caso e segnala la processualità più che la dottrina) da cui, ci permettiamo di aggiungere, forse non è stato ancora tratto tutto quello che si poteva.


Autore: Davide Miccione
Fonte: Zero Zero News, 6/02/2020
Immagine di copertina: faro di Hanìa (Creta) di Albrecht Fietz da Pixabay

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